22 luglio 2009

Bruce Springsteen all'Olimpico

il manifesto 22.7.09


Sul prato dell’Olimpico, Bruce Springsteen entra subito a gamba tesa: Badlands, una grandissima canzone sul conflitto e la contraddizione – il conflitto, dentro di sé e contro le terre desolate di questo mondo, come fonte di sofferenza lacerante e di volontà di non sentirsi colpevoli per il solo fatto di esistere. Niente di più inattuale in questi tempi che esorcizzano i conflitti, i tempi pacificati del bonario “ma anche” e del compromesso e della mediazione rassegnata come pensiero unico. No – niente ritirata, niente resa, fino a quando queste terre maledette non ci tratteranno come si deve. Ma poi: “il ricco vuole essere re, e il re non è soddisfatto finché non è padrone di tutto.” Chissà di chi parla.
Molti anni fa, quando Ronald Reagan si disse suo ammiratore, Bruce Springsteen commentò: chissà se ha mai sentito Johnny 99. Pare che questo concerto lo dobbiamo al ministro Maroni, che ha evitato di farlo annullare dicendosi suo fan. Chissà se Maroni ha mai ascoltato Johnny 99: un operaio che perde il lavoro, che non ce la fa a pagare il mutuo (ma quand’è stata scritta questa canzone? Un quarto di secolo fa, o l’altro giorno?), prende un fucile in mano e spara (se fosse francese, metterebbe le bombe sotto la fabbrica o sequestrerebbe un dirigente), spiega al giudice che a mettergli l’arma in mano non è solo la perdita del lavoro e della casa ma soprattutto le idee che questo disastro gli ha fatto venire in testa. “Avevo debiti che nessun uomo onesto può ripagare”, dice Johnny 99. Bruce Springsteen scivola di seguito in un’altra canzone di un quarto di secolo fa, Atlantic City – e ripete la stessa frase: “avevo debiti che nessun uomo onesto può pagare” La prima volta, il creditore è la banca, la seconda volta è la mafia. Chissà che l’accostamento non voglia dire che queste istituzioni, nemiche entrambe della gente onesta, qualcosa in comune ce l’hanno. Non a caso, prima di scappare dalla mafia il protagonista di Atlantic City ritira i soldi dalla banca.
Non da “una” banca generica – dal “Central Trust.” E’ dall’epoca di Herman Melville che la cultura americana, alta, bassa o tutte e due insieme si caratterizza per la precisione dei dettagli, parla a tutti e dovunque perché parla di luoghi precisi, riconoscibili. Se nomini una banca, se descrivi una nave, ha da essere una banca o una nave concreta in tutti i suoi dettagli, anche perché solo così può diventare tutte le navi o tutte le banche. Atlantic City è New Jersey fino al midollo ma la domanda che ci lascia non è certo a dimensione locale: “tutto muore, questo è un fatto, ma forse tutto quello che muore un giorno ritorna.” E io mi sono sempre domandato se è una speranza o un terrore – il sogno americano di poter sempre ricominciare, che nessuna perdita è definitiva; o l’incubo americano (“a volte ritornano”) di non potersi mai liberare dai fantasmi. E poi, lo diceva pochi anni dopo Toni Morrison, in un’altra storia di ritorno dalla morte: “tutte le cose morte che tornano portano dolore.” Sospetto che siano tutte e due le cose: niente speranza senza paura, come nessun entusiasmo di essere vivi senza la lacerazione portata da quel conflitto che è vita.
Parla di morte e di speranza, di entusiasmo e di paura, e tutto si sostiene sull’implacabile vigore ritmico della E Street Band (che sia questa la vera “gioiosa macchina di guerra” del nostro tempo?) che avvolge tutto in un’affermazione irresistibile di passione. Accanto a me siede una compagna anziana che non ha mai sentito Bruce Springsteen e vuole che le spieghi le parole: ma bastano cinque minuti perché capisca che contano fino a un certo punto (ma contano, contano!), perché questa è una cerimonia che attraverso il suono, le vibrazioni, il corpo (il sudore che impregna subito la sua camicia ci fa capire che questo è anche lavoro) ci unisce e ci fa sentire che abbiamo il diritto di essere vivi, che ognuno di noi è una persona ma che siamo anche una cosa sola. Bruce Springsteen sarà pure di famiglia cattolica, con tutte quelle canzoni su Mary e con la mamma sul palco; ma è figlio di una cultura protestante che ha inventato una serie di procedimenti dell’oralità collettiva improvvisata grazie ai quali la ritualità non è sottomissione a un testo precostituito da recitare a comando ma azione personale, coinvolgimento attivo, espressione immediata di sé. Fra i suoi procedimenti stilistici, profondamente americano, è il gioco del call-and-response, dell’antifona, che chiama tutti noi pubblico a cantare le risposte alle sue domande, come si fa nelle chiese rurali del Sud (Raise Your Hand – l’antifona, ma anche il gesto con le mani alzate a vibrare nell’aria - mi riporta dritto dentro il mondo pentecostale del mio caro Kentucky) o come fanno i cheerleaders negli stadi. Sono procedimenti elaborati da una cultura che odia i monologhi, sia che preghi, sia che giochi, sia che faccia politica: abbiamo sentito parlare Barack Obama? E non fa niente se qualcuno, poco attento alle parole, balla allegro mentre lui canta American Skin: un’altra canzone che parla di adesso, ti possono ammazzare per il solo fatto di essere vivo (ancora, la vita come colpa imperdonabile agli occhi del potere: forse fanno bene a ballare, dopo tutto) dentro la tua pelle americana; e ti possono ammazzare se dentro la tua pelle italiana sei un burkinabé con una scatola di biscotti, un ragazzo africano in un parco a Parma – o magari, con un altra pelle italiana, se ti chiami Aldrovandi o, visto che stiamo alla stadio, Sandri. Ma quando è stata scritta questa canzone?
Dall’altro lato mi siede mio figlio, che a cinque anni suonava I’m On Fire al pianoforte con divertito scandalo delle anziane signore. Insieme, commentiamo la struttura portante di quasi tutti i brani. Ogni volta, Bruce Springsteen costruisce una tensione sempre più insostenibile attraverso l’uso ossessivo del riff e della ripetizione, un po’ come nel Bolero di Ravel (o nel crescendo di Twist and Shout) – e poi, lo scioglie in un’apertura melodica, poetica, ritmica che dà sollievo e, per dirla con Bob Dylan, riporta tutto a casa. Dice mio figlio, fa sempre la stessa cosa – se lo facesse un altro direi “che palle,” ma lui se lo può permettere. E io: dicono che le canzoni di Bruce Springsteen si somigliano tutte; be’, pure i capitelli del Partenone sono tutti uguali (e tutte le terzine della Divina Commedia fanno rima). C’è una poetica dell’inaspettato, dell’imprevisto, dello scarto improvviso, dello straniamento; e c’è una poetica della ricomposizione, della ricostruzione di un ordine dotato di senso in cui possiamo essere noi stessi. Queste due poetiche non potrebbero esistere una senza l’altra, perché ciascuna delle due smentisce le convenzioni dell’altra. Non ci sono sorprese nella classicità. Non ci sono sorprese nell’utopia; io preferisco non avere sorprese a casa mia, e questo concerto, questa musica, è la mia casa e una casa comune: un concerto rock non è un concerto dove si ascoltano le canzoni, ma dove le canzoni si riconoscono e ci fanno riconoscere in sé.
Eppure, non è un semplice ritorno all’ordine. Una volta che ci ha dato il sollievo di ritrovarci, infatti, Bruce Springsteen non chiude quasi mai: dal vivo, sembra quasi che non si riesca mai a decidere quando una canzone è finita, e non riesce davvero neanche a far finire il concerto, lo tira avanti fino a quando noi siamo più stanchi di lui nel mezzo della notte (ma, come lui, abbiamo ancora voglia). Se è un’utopia, è un’utopia in movimento; se è una casa, è una casa che si riapre continuamente.
Una canzone “minore” che ho sempre tantissimo amato e che gli avrei chiesto se fossi stato sotto il palco è Tougher than the Rest. Siamo stati tutti e due piantati in asso, dice, ma “there’s another dance,” c’è un altro ballo (che suona come “another chance”, un’altra possibilità): riproviamoci. Sul piano poetico e narrativo, e sul piano della visione politica, ripercorre la stessa strada di tensione e risoluzione. E’ una metafora di questa sua America (e del nostro tempo) fatta di vite e automobili di seconda mano, dove niente muore una volta per tutte e niente è mai sicuro di restare vivo. Come dice un personaggio di Faulkner, ci hanno ammazzato ma non ci hanno ancora sconfitto. Con la stessa visione di disastro e di rinascita, Bruce Springsteen dedica alla città dell’Aquila uno dei suoi capolavori, My City of Ruins, scritta prima dell’11 settembre (e le rovine sono quelle sociali delle periferie abbandonate e crollanti), diventata un’icona musicale di quella catastrofe e adesso ripercorsa per evocare le rovine materiali del terremoto e di quello che è venuto poi. Poche descrizioni della crisi dei nostri tempi sono eloquenti come questa. Siamo in ginocchio, riconosce. Ma poi: “come on, rise up,” avanti, alziamoci. Dopo ogni catastrofe viene The Rising, una resurrezione (una cosa morta che torna viva? Con dolore, con speranza), ma io non posso impedirmi di pensare che è anche un (up)Rising, un’insurrezione. “Come on, rise up,” ripete ossessivo a tutti noi, alle speranze avvizzite di un altro mondo possibile, alle città distrutte dell’Aquila, di New York, di New Orleans, a noi stessi stanchi e scoraggiati. E ci dice con quali mezzi, in quell'ipnotica antifona crescente senza fine ripete “with these hands,” con le nostre mani. L’iconografia del corpo, del lavoro e della fatica che attraversa il concerto si fa anche indicazione politica. Se non ce le spezziamo da noi le catene mentali e fisiche, se non ce le ricostruiamo da noi le città materiali e ideali travolte, non lo farà nessuno al nostro posto.

17 luglio 2009

Il mio nome è Lucy

il manifesto 12.7.09

“Mi hanno chiamata Luciano.” E’ giusto che il titolo di questo piccolo libro scritto da Gabriella Romano, la storia in prima persona di una transessuale basata su una lunga serie di interviste, si intitoli Il mio nome è Lucy. L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale (Donzelli 2009, 93 pp., 16 Euro). Attorno al nome ruota una complessa storia di identità e di consapevolezza di sé. Riguardiamo quell’incipit: un participio al femminile introduce un nome maschile. E’ come se tutta la storia si collocasse in quella frattura di genere grammaticale. E riguardiamo quel titolo: da un nome maschile si estrae un diminutivo femminile. E’ quasi un peccato che la parola “transessuale” nel titolo ci anticipi l’argomento e disinneschi l’effetto straniante dell’attacco. Sul nome, infatti, Lucy ci lavora per tutta la vita. Lo cambia in Carmen quando lavora nelle strade notturne di Bologna in epoca fascista, poi di nuovo quando nel dopoguerra fa parte della coppia d’avanspettacolo Tamara e Tain, in Lucy quando trova una nuova vita e un nuovo lavoro a Torino. Ma conserva Luciano, che rimane il suo nome all’anagrafe. “Tanta gente mi chiede: ‘Come mai Luciano?’Dico, ‘Perché mi piace Luciano’. ‘Ma è un nome da uomo’. ‘Non m’interessa, mi piace Luciano’”. E spiega: “mi piace il mio nome, me l’hanno dato i miei genitori… io sono chi sono a prescindere dal nome che mi è stato dato alla nascita”. La contraddizione tra genere e nome è un problema degli altri, di quelli che credono in identità di genere stabili, univoche e rassicuranti; non è un problema suo.
Questo è importante: “non è un problema”. “Io sono chi sono.” Il lavoro sui nomi infatti non è un lavoro di cancellazione di identità rifiutate ma di esplorazione, di estensione di identità mutevoli ma in continuità fra loro. Lucy, a più di ottant’anni, racconta la sua vita senza vittimismi proprio perché questa vita è la sua. Racconta dei pedofili che l’hanno usata (anzi: usato. Il gioco dei pronomi è lineare: usa il maschile fino a che si considera omosessuale, passa al femminile da quando si riconosce transessuale) da bambino, poi delle strade in cui si prostituisce a Bologna, con una tranquillità straniante. Ricorda la socialità con i suoi compagni di vita (“frequentando queste persone sentivo che mi ci trovavo bene”), descrive i cinema, le trattorie, le strade di una Bologna invisibile e piena di vita quasi come una festa mobile – e poi ricorda le aggressioni, la repressione, i fascisti che umiliavano e massacravano omosessuali e transessuali, con fermezza e precisione ma senza abbandonarsi a lamenti. E quando poi dopo fughe e avventure finisce a Dachau (paradossalmente, non come omosessuale ma come disertore perché – come omosessuale – non sopportava la vita militare), anche il campo di sterminio è descritto senza retorica, così che risulta ancora più assurdo e violento nella sua concretezza.
Descrivendo il suo romanzo più importante e provocatorio, Native Son (Paura), il grande scrittore afroamericano Richard Wright diceva: volevo fare un libro su cui le figlie dei banchieri non si potessero commuovere. Ecco, il libro di Lucy e Gabriella Romano non tollera la facile compassione che mette una distanza fra chi racconta e chi legge, ma sfida il lettore a ridefinirsi in rapporto con una storia che problematizza i confini, e quindi l’identità di tutti. E ogni volta strania le aspettative.
Due esempi per finire. Il padre di Luciano è, più che antifascista, un a-fascista che comunque finisce al confino. Ma in famiglia lui e i suoi altri figli maschi possono essere altrettanto violenti e discriminatori (se ne deve andare, dicono i fratelli, perché se no la gente pensa che siamo “come lui”): certi atteggiamenti non li possiamo esorcizzare chiamandoli solo “fascisti”. Uno si aspetterebbe, allora, che Lucy respingesse questa famiglia, e certo è costretta a cercarsi una vita altrove. Però quando si trova a Dachau il suo primo pensiero è che non rivedrà più la sua famiglia; e una ragione per cui tiene a chiamarsi ufficialmente Luciano è che quel nome gliel’hanno dato i suoi genitori. Ed è lei, non i suoi fratelli, ad assistere la madre negli ultimi anni di vita. Anche qui, insomma, siamo sul confine, fra ideologia e atteggiamenti di genere, fra affetto e rifiuto.
Infine, in età relativamente avanzata, Lucy decide di operarsi e cambiare di sesso. E anche qui, una sorpresa straniante: uno si aspetterebbe una specie di lieto fine, una ricomposizione finalmente raggiunta dell’identità. E invece no: dopo l’operazione, Lucy scopre che è stato ucciso il desiderio. “E’ stato un grosso, irreparabile sbaglio. Perché nella vita, oltre al sesso e all’amore, che cosa c’è? Non esiste altro.”
“Voglio essere sepolta vestita da uomo”: un giro di vita in più in questi continui passaggi di confine. E la ragione è infine nella coscienza di un’identità che comunque non si è mai spezzata, nella ricerca di una ricomposizione affettiva con l’altra figura femminile della sua vita: “Siccome mia madre mi ha fatto così, voglio tornare alla terra come lei mi ha fatta [e guardate il gioco dei generi grammaticali!], è una forma di rispetto nei suoi confronti, lei mi ha accettato, o almeno ha fatto un grande sforzo per accettarmi e io, alla fine della vita, ritornerò da lei come mi avrebbe voluto.”

Agitati e non mescolati

ilmanifesto 27.7.09

E poi dicono che gli operai votano a destra. Spunta sui muri di Roma un manifesto dove si vede un barman con farfallino e shaker e la scritta, “Mescolati e non agitati.” E’ l’invito a una festa a “ingresso gratuito” denominata Democratic Party.
Io non so se quest’immagine festaiola-chic e pacificante con cui si presenta il partito a vocazione maggioritaria sia il modo migliore per attirare un’Italia che avrebbe buoni motivi di sentirsi agitata in tempi di crisi, né il miglior modo di distinguersi dal festaiolo proprietario di Palazzo Grazioli. Naturalmente non c’è niente di male nelle feste (io non sono mai stato iscritto a quel partito, ma alle Feste dell’Unità mi divertivo sempre. Però erano feste di gente seria che lavorava, non drink in terrazza), e poi quest’anno c’è da festeggiare il travolgente successo delle europee e dei ballottaggi. Però un problema tecnico ce l’ho: come fa quel barman a mescolare il cocktail senza agitarlo? In questo manifesto, la mescolanza è la cosa che mi piace, che evoca la discussione e il multiculturalismo. Però se si mescola senza agitare finisce che gli ingredienti se ne stanno tutti per conto loro e il risultato è un posto dove tutti si agitano litigando per motivi di bottega e non riescono a mescolarsi abbastanza da avere una posizione condivisa su niente.
Non metto in dubbio che il Partito Democratico desideri essere una cosa seria, e questo magari è solo un vezzo comunicativo-pubblicitario, che peraltro è segno di una mentalità. Però come americanista di mestiere, mi dà fastidio questo uso paesano della lingua inglese (vi ricordate “I care”?). Oltre tutto il giochino di parole fra “party”-festicciola e “party”-partito è stantio, se lo sono già giocato un anno fa e anche allora non faceva ridere. Sarà pure il segno di una modernità mediatica, ma forse non è il modo migliore per convincere i cittadini che questo ceto politico vive nello stesso paese dove vivono loro. E se poi vogliono alludere al Democratic Party di Obama, forse vale la pena di ricordare che questa volta ha vinto parlando di diritto alla salute, di strategie contro la crisi, di apertura al dialogo fra civiltà, di redistribuzione della ricchezza, e non discutendo di chi deve essere segretario e di come saranno le regole d’ingaggio al prossimo congresso.