11 maggio 2008

Regina di fiori e di perle: Gabriella Ghermandi

il manifesto 3.5.2008

Regina di fiori e di perle è un romanzo di Gabriella Ghermandi (Donzelli, 2007), e una performance scenica e musicale che la stessa Ghermandi presenta, con la partecipazione speciale di Stefano Benni e le musiche dal vivo di Gabin Dabiré, al teatro comunale di San Giovanni in Persice (Bologna), il 6 maggio alle 21. E tutti e due, il testo e la performance, sono imperdibili.
C’è un momento emozionante nelle performance di Gabriella Ghermandi: quando, arrivata a un punto cruciale nel racconto della sua storia, i suoi abiti occidentali vengono coperti e nascosti dalle fluide vesti della sua storia africana, e il suo corpo scenico si trasforma, si fa più solenne e profondo, e ancora più intensamente femminile. Gabriella Ghermandi vive a Bologna da quando aveva quattordici anni; sua madre è etiope, suo padre italiano; parla con la stessa naturalezza eloquente l’amarico e l’italiano, il bolognese e il tigrino. Ha detto: “Per i bianchi non ero bianca, per i neri non ero nera.” In realtà è tutte e due le cose, ma prigioniera di nessuna. Fra origini, continenti, lingue, si muove con la leggerezza tagliente e gentile di chi strania sempre il punto di vista eppure include in sé l’oggetto guardato.
Regina di fiori e di perle, in forma di romanzo, copre un arco di tempo che va dall’invasione italiana dell’Etiopia nel 1935 fino al 2000. Racconta la formazione di una giovane donna, la vita quotidiana e familiare in un villaggio e poi nella capitale d’Etiopia, l’invasione italiana e la da noi sconosciuta resistenza etiopica, le difficoltà dell’incontro fra persone diverse, la dittatura “marxista” di Menghistu, la migrazione in un’Italia soffocante, il ritorno in Etiopia – storie drammatiche, fatti pesanti. Ma non perde mai di vista la meraviglia e la bellezza, le perle e i fiori, appunto.
Noi italiani che dai libri di storia sistematicamente cancelliamo la memoria degli orrori del nostro colonialismo e dei nostri crimini di guerra (altro che retorica della Resistenza!) abbiamo molto da imparare da questo libro e dai racconti di Gabriella Ghermandi. Qui non manca niente di quello che dovremo sapere. Senza pesantezze didascaliche, spesso collocandole ai margini della storia ma ben visibili, il libro ricorda l’invasione italiana, la resistenza e la controffensiva etiopica; l’orrenda rappresaglia italiana di Debrà Libanos vista dalla prospettiva domestica di due giovani donne che lavorano per un ufficiale italiano; i gas usati dal nostro esercito, attraverso gli incubi di Yacob, il primo dei grandi narratori di questo libro; le leggi razziali che vietano i matrimoni misti (preludio alle leggi antiebraiche del 1938) e rovinano un amore.
Una scena illuminante è quella in cui Yacob, che ha combattuto nella resistenza, incontra Daniel, il soldato italiano che ama sua sorella Amarech che da lui aspetta un figlio. Daniel cerca di salutarlo con i gesti di riverenza che ha visto fare alla gente del posto – il busto inclinato, la mano porta in avanti con la palma in alto. E Yacob gli risponde con un’intenzionale parodia del gesto europea della stretta di mano. In questa fallita e squilibrata imitazione reciproca sta sia il fallimento, sia la necessità dell’incontro.
Infatti Regina di fiori e di perle non è un romanzo di protesta e di denuncia, se non nella misura in cui svelarci la bellezza, la poesia, la profondità di un mondo che abbiamo invaso, violato e disprezzato può aiutarci a ragionare su chi siamo, chi siamo stati - e rischiamo di ridiventare. Ma Gabriella Ghermandi non ci chiede di pentirci o di vergognarci; ci offre piuttosto di condividere il sapere e l’incanto.
Nel libro, l’incanto sta nello sguardo della narratrice e protagonista, una bambina affascinata dai racconti degli anziani. Come Quentin Compson in Absalom, Absalom! di William Faulkner, Mahlet riceve i racconti di tutta la sua comunità, ne diventa la destinataria senza sapere bene perché – forse perché sa ascoltare senza interferire, forse perché nella sua sete di storie gli anziani leggono la possibilità di affidarle la missione di raccontare a sua volta. Narrataria e narratrice, ricettiva ed espansiva, Mahlet sta al centro di un libro che è un tessuto di racconti e di ascolti – un quilt, mi verrebbe da dire, dove la forma di una cultura e di una vita appare gradualmente a mano a mano che i fili si intrecciano e che noi impariamo a guardare.
I racconti, naturalmente, sono all’origine orali – non perché la cultura amarica non possegga un’elaborata tradizione di scrittura, ma perché l’oralità è lo strumento principale della comunicazione familiare quotidiana. Tuttavia, la scrittura di Gabriella Ghermandi non cerca tanto di riprodurre il suono della voce (e comunque, la lingua è un’altra), quanto di farci sempre ricordare che la narrazione orale è sempre dialogica, presuppone sempre un rapporto. Nessuno racconta se non c’è qualcuno che sta a sentire, sia pure in silenzio; nell’oralità l’orecchio è necessario quanto la bocca. Mahlet nasce come avida ascoltatrice e, attraverso i racconti che riceve, assistiamo alla genesi di Mahlet come raccontatrice a sua volta.
Ha detto una volta Ascanio Celestini: io posso raccontare perché ho ascoltato chi ha ascoltato i racconti. Anche Gabriella Ghermandi, che ha ascoltato e reimmaginato queste storie, torna a raccontarcele non solo in forma di libro ma anche con la sua stessa voce. Io l’ho incontrata per la prima volta in una rassegna di “voci afroitaliane” che avevamo organizzato a Roma, e rimasi incantato dalla capacità che aveva di evocare luoghi e persone lontani con il solo potere della parola (e con un godibilissimo senso dell’umorismo e della commedia). Poi l’ho ritrovata in una notte romana, proprio insieme ad Ascanio Celestini: lui leggeva le pagine di Regina di fiori e di perle, e Gabriella Ghermandi le avvolgeva in altri racconti in prima persona. Più indietro, sul palco, un’altra delle presenza africane in Italia più affascinanti: Gabin Dabiré, musicista e cantastorie burkinabé padrone di molti strumenti che dialogano intrecciandosi con una voce flessibile e concreta. Non era difficile, anche se non capivamo le parole, e anche se il Burkina Faso e l’Etiopia non sono la stessa cosa, rendersi conto che le storie cantate da Gabin, quelle raccontate da Gabriella e quelle lette da Ascanio facevano tutte parte di uno stesso intreccio, di uno stesso dialogo. Poi, Gabriella Ghermandi, in piedi avvolta nei suoi abiti africani, ha cantato in amarico le canzoni della sua infanzia e della sua adolescenza, e, come la voce si è fatta romanzo, il romanzo si è fatto musica.
Però: non chiudiamo tutto questo raccontare in scrittura, in voce, in musica, dentro l’etichetta dell’esotismo postcolonialista o della sola letteratura migrante. Sarebbe un modo non solo per relegarla in uno stato di seconda classe, ma soprattutto per allontanarla dalle correnti riconosciute della nostra cultura. E invece questi libri e questi racconti sono noi, l’Italia non ha senso se non li sentiamo nostri. La cosa più eccitante di questi tempi, e la cosa di cui hanno più paura i giovani alemanniani e bossiani di tutta Italia, è che l’idea stessa di che cosa significa essere italiani ci sta cambiando fa le mani. Il libro di Gabriella Ghermandi, come quelli di Cristina Ali Farah, Igiaba Scego, Ingy Mubiayi ci fanno capire che cosa diventa e che cosa è stata l’Italia, e per questo, non solo perché scrivono in italiano, sono letteratura italiana contemporanea a pieno titolo. Non un altro con cui confrontarci, ma un noi in cui ci specchiamo. L’Italia è fatta delle cose di cui ci raccontano: della nostra storia coloniale, delle migrazioni, delle discriminazioni, degli incontri, di che cosa vuol dire essere donne ed essere giovani in questo affaticato paese, dei mescolamenti di lingue e di voci.
Per questo è bello che insieme con Gabriella Ghermandi e con Gabin Dabiré, a San Giovanni in Persicelo, ci sia Stefano Benni, come a Roma è stato Ascanio Celestini. Come lei, sono tutti e due straordinari ascoltatori che hanno imparato a farsi straordinari narratori, in scrittura, a voce, in scena, in poesia. Benni e Celestini, insieme con Gabriella Ghermandi e Gabin Dabiré, ci insegnano che l’oralità, la voce, l’ascolto, la musicalità non sono tratti atavici di esotiche culture lontane. Sono essenza del nostro quotidiano, una scelta di cultura, di conoscenza, una fonte di piacere a portata di mano, e, in ultima analisi e in tempi lunghi, anche una scelta politica.

2 Comments:

Blogger Unknown said...

Questo commento è stato eliminato dall'autore.

4:41 PM  
Blogger Unknown said...

Si tratta di una vera e propria rivelazione per me. Questo libro è magnifico. Cerco di spiegare il titolo. Puo' aiutarmi? Grazie.

4:42 PM  

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