18 settembre 2007

Stati Uniti: l'ambiguità dell'ida di progresso

Alias, settembre 2007

Verso la fine degli anni ’60, in una conversazione con una compagna americana a fine anni ’60: qualcuno menzionò il Signore degli anelli, e ci accorgemmo con reciproco stupore che quello da noi era allora un libro di culto della destra fascista era stato negli Stati Uniti un testo fondamentale dei movimenti alternativi, pacifisti, controculturali. Fu questa sorpresa a indurmi a leggerlo per la prima volta; e questa lettura ad aprirmi uno spiraglio sulle differenze profonde fra l’America e noi. Uscito da un ambiente di destra cattolica accademica a metà degli anni ’30, il Signore degli anelli era fra le tante cose anche un duro manifesto antiprogressista: l’uso che Saruman si prepara a fare dell’anello prefigura come minimo la bomba atomica; e lo sgomento con cui Frodo ritrova il suo Shire avvolto nei fumi di un’industrializzazione distruttiva è solo il momento più evidente di questa polemica. Non a caso, il Signore degli anelli ha smesso di essere patrimonio esclusivo dei fascisti attorno al 1973, alla prima scoperta dei limiti dello sviluppo, dell’emergenza ambientale, della crisi energetica - insomma, nel momento in cui ci siamo accorti che il progresso non era un tutto inscindibile e un bene assoluto. I nostri compagni americani se ne erano accorti ben prima di noi, non perché fossero necessariamente più intelligenti, ma perché fin dalle origini avevano con il progresso un rapporto diverso.
Semplificando. Noi venivamo da una storia di feudalesimo e oscurantismo delle classi dominanti, per cui il progresso era stato una bandiera delle lotte sociali, rivendicato dal pensiero di opposizione laico, socialista, popolare. La tradizione marxista ci aveva insegnato, poi, che progresso tecnico e progresso sociale andavano essenzialmente insieme: anche se le tecnica e la scienza non erano neutrali, tuttavia era lo sviluppo delle forze produttive il processo che avrebbe generato dal suo interno le forze della liberazione dal capitalismo e dallo sfruttamento.
Negli Stati Uniti le cose erano andate diversamente. Fin dall’inizio, il progresso era stato una bandiera delle classi dominanti, non necessariamente in simbiosi con il progresso sociale. Lo scontro formativo degli Stati Uniti moderni era stato quello di fine ‘700 fra Thomas Jefferson, fautore di una società egualitaria di produttori indipendente rurali, e Alexander Hamilton, sostenitore di uno sviluppo urbano, industriale, capitalistico, e tutt’altro che “progressista” sul piano sociale. Difficile dire chi dei due fosse, nei nostri termini, “conservatore” e “progressista”: la nostra inscindibile endiadi fra uguaglianza e progresso, negli Stati Uniti era radicalmente scissa.
Pendiamo un luogo familiare dell’immaginazione americana, e quindi della nostra: il classico western con il piccolo contadino pioniere che si oppone disperatamente all’invasione della ferrovia sulle sue terre. Non c’è dubbio su da che parte sta il progresso: le forze produttive sono destinate a spazzare via queste resistenze antimoderne. Però non c’è dubbio neanche su da che parte stessero le simpatie dei film e le nostre di spettatori: tutte dalla parte del contadino, perché percepivamo quel conflitto non tanto in termini di conservazione e progresso quanto in termini di potere e diritti, che i cittadini si sforzavano di conservare e la modernizzazione del capitale schiacciava senza scrupoli. A differenza che nel nostro Sud, insomma, le ferrovie non venivano ad aprire il mondo ai contadini ma a spazzare via i pionieri che avevano aperto quel mondo a loro.
Gli esempi si possono moltiplicare, naturalmente (sempre semplificando e trascurando le non trascurabili contro tendenze). Per esempio, per un paio di secoli, sono stati progressisti a dichiarare desiderabile o inevitabile in nome del progresso l’estinzione dei nativi americani – da Benjamin Franklin a un antirazzista specchiato come Mark Twain – mentre conservatori come Washington Irving o James Fenimore Cooper coltivavano se non altro la nostalgia e un rispetto a posteriori. Un darwinismo d’accatto legittimava in nome della scienza e del progresso dell’umanità non solo la scomparsa o sottomissione delle “razze” inferiori (dagli indiani ai filippini ai portoricani), ma anche il dominio baronale dei capitalisti alla Morgan e Carnegie sulla classe operaia. A metà ‘900, tanto i sindacati quanto la controcultura percepiscono quella che allora si chiamava “automazione” come una minaccia: per i posti di lavoro i sindacati; per il rischio di riduzione a macchine degli esseri umani la controcultura. (Un esempio, visto che in questi giorni si parla tragicamente di miniere: l’accordo sindacale che nel 1950 aprì la strada alla meccanizzazione delle miniere di carbone cancellò seicentomila posti di lavoro in cinque anni, produsse un’ondata migratoria senza precedenti, e accentuò gravemente la nocività del lavoro in miniera. Certo, a chi restava vivo e occupato, garantiva salari più dignitosi). Mentre da noi la sinistra e il movimento operaio costruivano l’opposizione e la lotta all’interno dei processi di modernizzazione, la risposta della controcultura fu, essenzialmente, la scelta di tirarsene fuori materialmente (le comuni, la strada, gli hippy) e intellettualmente (i beat, le filosofie orientali, il “neo-sciamanesimo).
Naturalmente, questa diversa declinazione del rapporto fra progresso tecnico e progresso sociale non manca di produrre effetti anche sull’immaginazione e l’autopercezione alternativa. Il contadino in lotta con la ferrovia è lui stesso un portatore di quel progresso che lo spazzerà via: non si chiama mica “pioniere” per caso. Soprattutto, è solo: nell’immaginario filmico western, sono rari i casi in cui l’arroganza del capitale ferroviario si incontra con un’opposizione sociale. Qui c’entra anche l’alternativa jeffersoniana a Hamilton: un’idea di uguaglianza basata sull’individualismo della piccola proprietà indipendente, che si trasferisce in un’idea individualistica e solitaria dei diritti. Così, il conflitto è sempre fra processi sociali da un lato e diritti individuali all’altro (ma persino nei film operai, o nei gialli alla Grisham, è sempre un singolo eroe – o eroina: Norma Rae, Erin Brokovich – che frustra i progetti dei padroni e delle mafie. Per questo nella letteratura e nel cinema sono così importanti gli avvocati). Persino nel movimento operaio, il principio di solidarietà di classe espresso dai Knights of Labor, dagli Industrial Workers of the World, dal primo Congress for Industrial Organizations, cede spesso a un business unionism con tratti corporativi, che tratta il lavoro come merce concorrenziale senza porsi grandi problemi di progresso sociale e di diritti e lascia i non iscritti al loro destino.
Ora, tutto questo era in prodotto di un preciso processo storico, di un paese nato guardando il futuro, sposando la modernità nell’atto stesso della sua creazione, e quindi un elemento di diversità fra la nostra realtà e quella degli Stati Uniti. Negli ultimi tempi, le cose sembrano complicarsi e mescolarsi. Anche in Italia e in Europa modernizzazione e progresso vanno sempre meno a braccetto con uguaglianza e solidarietà, e sempre più con precarietà, frammentazione dei legami sociali, aumento vertiginoso dei profitti. Come ci spiegava con meritevole franchezza Mario Pirani qualche settimana fa, “riformismo” oggi non vuol dire più sviluppo dei diritti dei lavoratori come è stato in tutto il ‘900, ma una loro progressiva riduzione: il riformista moderno è che taglia il welfare e combatte il sindacato, sia pure (diceva Pirani) per salvare il salvabile nel mondo globalizzato. Il risultato è che la confusione fra progresso e conservazione propria del ‘700 statunitense si riproduce adesso da noi: “conservatori” sono i sindacati, gli ecologisti, gli “alter-globalisti”; progressisti, Montezemolo e Berlusconi. E, senza fare nomi, anche parecchi di quelli che abbiamo votato.
Negli Stati Uniti, per converso, un minimo di progressismo” con toni anche sociali riprendere voce. Certo, quando Hillary Clinton ha il coraggio di dichiararsi “progressista” bisognerà pure aspettare di capire che cosa intenda per progresso. Ma se nella sua definizione rientra, come peraltro ha detto, un minimo di attenzione alle condizioni di chi lavora e un rinnovato tentativo di dare ai cittadini americani un poco di quel diritto alla salute che secoli di progresso gli hanno negato, allora merita attenzione. Nel frattempo,rileggiamoci pure, con un grano di sale, Il signore degli anelli.

2 Comments:

Blogger cosmopolitica said...

Meno male che nel cinema e nella letteratura (americana) resta ancora l'illusione che un singolo possa battersi e magari sconfiggere le forze capitalistiche malvage, che operano a discapito della società stessa. Quello che la realtà nega quotidianamente, viene recuperato dalla fiction o dalla narrazione documentaria come via d'uscita e alternativa all'esistenza che altrimenti sarebbe insopportabile. In Italia nemmeno questo, a parte gioiellini tipo Miracolo a Milano, che è anche una satira sociale.
Quanto alle posizioni progressiste o presunte riformiste che oggi caratterizzano un certo discorso politico, forse molto dipende dalla posizione contro cui ci si definisce progressisti o riformisti. Non si può far sostenere il peso del welfare, peraltro carissimo, a chi ha redditi appena al di sopra della soglia di povertà, a chi ha un lavoro precario, a madri lavoratrici che non percepiranno mai una pensione solo in nome della conservazione dello status quo di una generazione che ha goduto del boom economico degli anni sessanta, per esempio. Bisogna però stare attenti a non cadere nella trappola del ricatto sociale, del tipo che c'è in atto oggi in questo bel paese baciato dal sole che non è abbastanza progressista da investire in infrastrutture per il risparmio energetico.
Ma questo è un altro discorso...

9:20 AM  
Blogger sale said...

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1:17 PM  

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